di Dott.ssa Simona Silvestro, psicologa e psicoterapeuta
Il sovraffollamento e il fallimento delle politiche di welfare
I numeri sul sovraffollamento parlano chiaro: dai dati sopraggiunti dalle carceri italiane, i detenuti nelle strutture presenti nel nostro Paese sono 61.468, dovrebbero essere invece 47.067 le persone detenute in base ai posti disponibili negli istituti penitenziari. Questo significa che vi è un indice di sovraffollamento del 130%.
Era dal 2013, cioè dall’anno della Sentenza Torreggiani con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati nelle carceri italiane, che non si registravano numeri così elevati.
A questo dato si unisce quello di spazi esigui e strutture fatiscenti che spesso portano ad una necessaria vicinanza forzata di diverse etnie o credi religiosi o di altre incompatibilità, la chiusura delle celle dal 2024 e il personale, sia di polizia penitenziaria sia quello clinico, che risulta altamente insufficiente rispetto alle risorse necessarie.
Purtroppo il carcere è diventato l’ultima spiaggia, il luogo dove diventa evidente il fallimento delle politiche per la migrazione, delle politiche giovanili e degli interventi territoriali per la salute mentale, per le tossicodipendenze e per la grave emarginazione.
Per molti dei detenuti il carcere è il primo presidio sanitario che incontrano, dove ricevono diagnosi e vengono curati.
Noi operatori incontriamo quotidianamente persone con disagio psichico conclamato (alcune sezioni degli Istituti assumono l’aspetto proprio degli ex manicomi), giovani migranti arrivati in Italia come minori non accompagnati e che hanno subito torture nelle prigioni libiche, anziani, persone in situazione di povertà e marginalità.
L’applicazione della circolare della media sicurezza del DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) nel 2024 ha generato una situazione ancora più gravosa perché ha imposto la chiusura delle celle, tranne nei reparti a trattamento avanzato. Questo comporta che le persone possano uscire dalle celle solamente per accedere alle attività, quindi trascorrono molto tempo chiusi nelle celle con uno spazio a disposizione spesso inferiore ai 3 mq, spazio di diritto previsto dalla legge.
Autolesionismo e rischio suicidario
Eventi critici come l’autolesionismo o i tentativi suicidari sono all’ordine del giorno. Nel 2023 sono state almeno 70 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un Istituto di pena.
Il tasso di suicidi relativo alle donne è sensibilmente superiore a quello relativo agli uomini. Il primo si attesta a 16 casi ogni 10.000 persone, il secondo a 11,8. Inoltre l’incidenza dei suicidi è maggiore tra le persone di origine straniera, con un tasso pari a 15 casi ogni 10.000 persone, rispetto a un tasso pari a 10,5 tra gli italiani. Confrontando con quanto accade fuori dagli Istituti di pena, i dati dell’OMS ci dicono che il tasso di suicidio in Italia nel 2019 era pari a 0,67 casi ogni 10.000 persone. Nello stesso anno, il tasso di suicidi in carcere era pari a 8,7 ogni 10.000 persone detenute (Ass.Antigone, dossier dei suicidi in carcere 2023-2024).
Alcune carenze a livello territoriale aggravano la situazione carceraria. Ad esempio, la carenza di posti in comunità terapeutica per problemi psichiatrici e per problemi di tossicodipendenza spesso impedisce la possibilità di eseguire la pena in un luogo più idoneo per le persone affette da problemi psichiatrici o tossicodipendenza.
Talvolta, il posto in comunità terapeutica o in strutture residenziali non è disponibile neanche al termine della pena per persone gravemente compromesse con patologia psichica, tossicodipendenza o senza fissa dimora e avvengono dimissioni non protette senza che il territorio sia pronto ad accoglierle.
Gli psicologi e le altre figure professionali che operano nelle carceri
Questa situazione rappresenta una forte criticità per la polizia penitenziaria e per tutte le figure che giornalmente operano per il diritto alla salute delle persone detenute.
Pensiamo in primis agli psicologi che sono in servizio nelle carceri con il Ministero della giustizia o tramite il servizio di psicologia dell’Azienda ospedaliera. Insieme agli psichiatri intervengono sugli eventi critici e sul rischio suicidario applicando precisi protocolli e diventano operatori dei Servizi di emergenza, come in un ospedale da campo in tempo di guerra.
Come possiamo intervenire?
Da alcuni anni il terzo settore realizza interventi finanziati da Regione Lombardia e dal Comune di Milano, tesi a creare occasioni interne agli Istituti di tipo formativo, riabilitativo e laboratoriale, che vanno a rafforzare i servizi pubblici istituzionali.
Sono stati aperti Centri diurni interni negli Istituti milanesi di Milano San Vittore, Milano Opera, Milano Bollate e IPM Beccaria.
La storia dei Centri diurni interni agli Istituti di pena in Italia è relativamente recente e risale al 2008 la prima esperienza di apertura del Centro Diurno a San Vittore e le esperienze Lombarde si sono sempre state gestite da Enti del terzo Settore, cercando di creare tavoli di condivisione e scambio anche con le Aziende Ospedaliere, titolari degli interventi sanitari all’interno degli Istituti di pena.
I Centri Diurni si rivolgono a persone con fragilità psichica o altri tipi di disabilità, ad esempio sul piano intellettivo.
Per quanto riguarda le patologie psichiatriche incontriamo quadri complessi caratterizzati spesso da doppie diagnosi (disturbo di personalità e poliabuso di sostanze). Sul piano intellettivo abbiamo spesso situazioni di ritardo mentale non diagnosticato.
I Centri Diurni interni si ispirano alla normativa di quelli esterni: secondo la normativa della Regione Lombardia sui centri diurni, il Centro Diurno viene così definito: “struttura semiresidenziale con funzioni terapeutico-riabilitative tese a prevenire e contenere il ricovero. E’ aperto almeno otto ore al giorno. L’utenza del C.D. è costituita da soggetti i cui bisogni derivano da incapacità o difetti gravi nello stabilire validi rapporti interpersonali e sociali. Il C.D. configura uno spazio in cui l’équipe operante offre strumenti e opportunità per attivare, sperimentare ed apprendere idonee modalità di contatto interpersonale nella forma di rapporti individuali e di gruppo”.
I Centri Diurni interni agli Istituti di pena hanno in primis obiettivi di tipo risocializzativo e riabilitativo ma sono anche luogo di acquisizione di competenze.
Costituiscono uno spazio alternativo al contesto carcerario in cui poter sperimentare la dimensione di gruppo al di fuori delle logiche carcerarie. Non si parla di reato, ma si crea una dimensione comunitaria sana nel quotidiano. Il tempo è scandito da momenti come la colazione e il pranzo consumati insieme agli operatori.
Le persone da inserire nelle attività vengono individuate in collaborazione con la Direzione e l’area pedagogica e sanitaria dell’Istituto, ed è stata definita la partecipazione stabile degli operatori del progetto allo staff di reparto dove sono presenti area educativa, area sanitaria e sicurezza.
All’inizio delle attività viene condiviso un patto di gruppo dei laboratori sottoscritto dai partecipanti in cui vengono accettate le regole del gruppo
I laboratori sono curati da equipe multidisciplinari con personale educativo, psicologi e esperti di laboratorio e sono strutturate in piccoli gruppi.
Il Centro Diurno è visto come uno spazio che offre strumenti e opportunità prevalentemente di tipo espressivo, non prestazionale. Le attività principali realizzate sono l’arteterapia usando vari materiali, dalla creta, alle tempere, all’acquerello.
L’artigianato artistico promuove la fiducia in se stessi attraverso la produzione di “cose belle” e l’acquisizione di linguaggi espressivi alternativi.
Altre esperienze dei Centri Diurni riguardano l’attività in ambito agricolo per le sue caratteristiche di flessibilità e multifunzionalità che hanno dimostrato un forte potere di responsabilizzazione, capace di indurre processi identificativi ed affettivi con l’oggetto del proprio lavoro attraverso il “prendersi cura”.
Pur ponendo l’accento sulle attività gruppali, i percorsi sono individualizzati e personalizzati, attraverso la possibilità di momenti di colloquio individuale sulla base di alcune fasi di particolare bisogno o della necessità di rinforzare la motivazione dei partecipanti.
Inoltre, non per tutti i partecipanti si prevede la medesima frequenza alle attività gruppali, ma si modula il percorso sulle esigenze del singolo.
Il Centro Diurno rappresenta un luogo di normalità in cui offrire ai detenuti opportunità concrete per far emergere e riconoscere le personali risorse, sviluppare autonomie e sperimentare alcune occasioni in cui poterle mettere in gioco. La sua funzione consiste nel coadiuvare il percorso di riabilitazione e sostegno favorendo il benessere dei pazienti e agendo nella dimensione relazionale-educativa attraverso la costruzione e la condivisione di spazi, tempi e attività nel quotidiano.
Essenziale è il concetto di continuità terapeutica e di collegamento con il territorio.
I partecipanti ai laboratori in prossimità del fine pena vengono indirizzati ai percorsi individuali di continuità terapeutica e reinserimento sociale, per supportarli durante il momento di transizione tra l’interno e l’esterno dell’istituto.
Il tema della riabilitazione e della cura tra carcere e territorio pone in evidenza la necessità di percorsi integrati tra clinico e sociale in grado di accompagnare la persona in un possibile reinserimento.
Riteniamo che gli interventi, focalizzati su percorsi riabilitativi e di cura, sulla responsabilizzazione dell’individuo, sullo sviluppo delle sue competenze sociali e sul raccordo con la rete territoriale, configurano un’importante azione di prevenzione del rischio di recidiva, statisticamente molto elevato nel caso di detenuti dimessi dagli istituti penali senza il supporto di un accompagnamento, né riferimenti sul territorio.
L’Associazione Professione Psicologo ha di recente aderito all’evento di commemorazione del giovane Youssef, arrivato in Italia come minore non accompagnato e affetto da problematiche psichiche, morto a soli 18 anni bruciato nella sua cella della CC di Milano San Vittore.
L’Associazione Professione Psicologo si schiera al fianco degli psicologi che operano nei contesti penitenziari per la difesa del diritto alla salute delle persone detenute e per promuovere il miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli Istituti di pena e condizioni di lavoro dignitose per gli operatori, su cui ricadono le conseguenze delle attuali politiche penali.
Lo fa non attraverso dichiarazioni di intenti ma con azioni concrete e una reale conoscenza del mondo penitenziario e della sua rete ad opera di soci con lunga esperienza in ambito penitenziario, che collaborano quotidianamente con le Istituzioni e con l’Osservatorio Carcere e territorio di Milano per promuovere un autentico cambiamento.